Parte 2 – La valle del Tirso

Dopo aver lasciato i suoni ancestrali della Barbagia, Il mio viaggio sulle orme dell’artigianato musicale in Sardegna si è spostato sulla costa ovest.
La prima significativa tappa è stata Tadasuni: uno dei piccoli borghi che circondano il lago Omodeo, il grande bacino artificiale formato dalla diga sul fiume Tirso, nell’entroterra oristanese. Qui il parroco-musicologo don Giovanni Dore raccolse nell’arco di mezzo secolo una poderosa collezione di antichi strumenti musicali appartenenti alla tradizione sarda: oltre 500 reperti che avrebbero costituito il più grande museo di questo genere sull’isola. Fino alla scomparsa di don Dore, avvenuta nel 2009, la collezione era effettivamente visitabile presso i locali della parrocchia che divennero meta di studiosi da tutto il mondo. A dimostrazione di quanto ci sarebbe ancora da fare per dare il giusto rilievo a questa preziosa arte sarda, dopo quel momento, e fino ad oggi, non è stato possibile allestire un vero museo, e del lavoro del sacerdote rimane soltanto un monumento davanti alla sua chiesetta. Ciononostante mi sembrava dovuto un gesto simbolico alla memoria del prete e del suo lavoro: fosse anche mediante un semplice scatto alla scultura che lo rappresenta.

Tadasuni, monumento al prete-musicologo don Giovanni Dore

In realtà, facendo ricerche per la redazione di questo articolo, mi ero subito imbattuto nella storia del “non-museo” di don Giovanni Dore, e mentre da una parte ero enormemente dispiaciuto per la perdita di un patrimonio culturale così importante, dall’altra ero stupito per l’anomala concentrazione di costruttori di strumenti tradizionali nella stessa area: la valle del Tirso. Non sono propenso a credere alle casualità, perciò ho cominciato a farmi domande: forse la famosa e rara canna mascu cresce solo qui? Impossibile dirlo: i luoghi di raccolta delle migliori canne sono il segreto meglio custodito dai costruttori, simile a quello che i raccoglitori di funghi delle mie parti riservano alle migliori porcinaie. D’altra parte, le canne sarde hanno davvero qualcosa di speciale: non è un caso se i più grandi produttori internazionali di ance per strumenti musicali a fiato si riforniscono proprio qui. E non bisogna dimenticare che oltre ai loro impieghi musicali, le canne hanno rappresentato una materia prima importantissima per secoli, sia nell’edilizia che nell’artigianato tessile che nella costruzione di oggetti d’uso quotidiano, tanto che direi che si potrebbe parlare di una cultura e di una civiltà cresciuta attorno alla presenza di canne.

In principio era..una bena: a casa di Michele Loi

Di tutto questo mi ha parlato, nel paese poco distante di Ulà Tirso, Michele Loi, per tutti Michelino, costruttore instancabile di strumenti musicali. Michelino è uno dei più apprezzati costruttori di launeddas della Sardegna (e quindi del mondo), ma preferisce soffermarsi sulla sua specialità, le benas.
Le benas sono l’antenato comune di tutti gli strumenti ad ancia, presenti in quasi tutto il mondo in varie versioni. E, in effetti, il concetto delle benas di Michelino è decisamente inclusivo: “Che cosa suonano gli incantatori di serpenti indiani? E cos’è l’arghul egiziano? Sono benas! E cos’è il sassofono? Una bena di ottone!“, mi ha detto, offrendomi una chiave di lettura a cui non avevo mai pensato ai diversi strumenti a fiato… e chissà che non abbia condiviso la stessa riflessione con Gavino Murgia, il grande sassofonista jazz di Nuoro, quando qualche anno fa venne in visita a casa Loi come oggi sto facendo io…
Naturalmente, stando alla sua esperienza, anche le stesse launeddas non sarebbero che un’evoluzione delle benas: “prendi una bena doppia e una singola, se vuoi suonarle insieme come fai a tenerle? devi usare il pollice, ma così facendo non puoi più diteggiare il foro posteriore, ecco quindi che da tre fori anteriori e uno posteriore delle benas, si passa ai quattro fori tutti anteriori delle launeddas.”

Michelino Loi davanti al suo wall of fame

Sulle pareti della sua taverna, Loi ha appeso in eleganti espositori i migliori pezzi del lavoro di una vita: gli strumenti più semplici sono le benas a singola canna, con tre fori davanti e uno dietro, secondo tradizione. Espositore dopo espositore, gli strumenti sono via via più sofisticati, ed è facile immaginare che la crescente complessità segua uno sviluppo storico. Nei modelli più primitivi l’ancia è intagliata nella stessa canna, e la sua eventuale rottura impone di buttare l’intero strumento, poi vengono le benas dove l’ancia è fissata ad un corpo di maggior spessore, ed è quindi sostituibile, quindi le benas a doppia canna nelle quali la seconda canna non ha fori e funge da bordone, benas a tripla canna, e infine benas con più fori, amplificate per mezzo di corni di bue, che Michelino riesce, con qualche tecnica segreta, a lavorare a forma di tulipano.
Con mio stupore, scopro quindi che, nonostante una vita passata tra gli strumenti, Michelino non li suona, se non per provarli o intonarli. La spiegazione in realtà è semplice quanto coerente:  “non sono un musicista” spiega, “non avrei il tempo materiale per suonare e costruire. Ed io ho scelto di costruire“, e così a differenza di tutti gli altri artigiani della musica che ho incontrato, per farmi ascoltare il suono degli strumenti preferisce che sia io a suonarli. Di punto in bianco me ne allunga uno tra i più belli tra quelli in mostra: una lunga bena cun corru e’boe a sei fori. Dopo qualche iniziale raglio d’asino, capisco finalmente quanta aria vada soffiata nello strumento per mettere l’ancia in vibrazione (tanta) e il suono esce pulito come quello di un clarino.
Michelino ha imparato la costruzione delle benas dal padre e dallo zio, che da bambino gli insegnarono a suonare gli steli d’avena selvatica (il termine “bena” deriva proprio dal latino per “avena”), e lungo tutta la vita ha migliorato la tecnica fino a portarla all’attuale eccellenza.
Oltre alla perfezione tecnica, quello che mi colpisce negli strumenti esposti è la raffinatezza del decoro, dovuta alla capacità di Michelino di coniugare abilità costruttive e disegno: servendosi di un pirografo, con mano leggerissima riesce ad ottenere una traccia estremamente fine.  La superficie della canna si scalda quel tanto che basta ad annerirsi, e passando il dito sugli elaboratissimi motivi floreali al tatto non si avverte nessun rilievo, come fossero stampati. Tra i pezzi che mi mostra, le decorazioni più stupefacenti appartengono ad una custodia per strumenti: una veduta agreste della Sardegna con tanto di alberi e nuraghe, fiori di diversi tipi e perfino una mappa della Sardegna dove è segnato il paese di Ulà Tirso. Essendo fatta anch’essa di canne Michelino ride: “tutti mi chiedono dove va messa la bocca, ma è una custodia!

Solo una semplice custodia per le mie benas…

Ma è solo visitando il suo laboratorio che mi rendo conto della straordinarietà del suo lavoro: nel modesto garage non vi sono complesse strumentazioni, solo una scrivania circondata di fasci di canne che stanno stagionando: “non servono molti attrezzi” dice Michele, mentre mi indica un piccolo astuccio che non contiene altro se non lame di diverse forme, tutte  self-made in base alle esigenze della lavorazione delle canne. Del resto non manca un po’ di sano orgoglio sardo: “soprattutto uso un coltello di Patada! non perde subito il filo come gli altri, e quando lo perde basta strofinarlo per pochi secondi su un pezzo di carta abrasiva e torna come nuovo!” Che sia forse questo il segreto di Michelino? E poi chissà! Forse fu la prima patada ad intagliare la prima bena!

Pochi e semplici strumenti per ogni esigenza di lavorazione della canna

Di certo la passione e la dedizione di Michelino giocano un ruolo di prim’ordine nella qualità dei suoi manufatti: ogni giorno vi impiega non meno di 3 o 4 ore.  Ecco perché lo vengono a trovare musicisti da tutta Europa, e tra i suoi clienti celebri si sono avvicendati Andrea Parodi e Vinicio Capossela; le sue benas sono esposte al museo etnografico di Nuoro, e nel 1994 sono state oggetto della tesi di laurea dell’etnomusicologo Roberto Catalano. A dire il vero, ai miei occhi il suo attaccamento alla tradizione sarda si manifesta in tutta la sua forza nel suo desiderio di tramandare alle generazioni future quest’arte autoctona. Proprio a tal fine insieme al musicista Stefano Pinna porta avanti un progetto con le scuole locali, dove ai ragazzi viene insegnato a costruire e a suonare lo strumento: “ai ragazzi piace, e imparano in fretta! è importante che la manualità che è sempre stata necessaria per vivere non venga perduta nel giro di un paio di generazioni“. E di sicuro, penso io, con un simile maestro sentiremo parlare ancora di Benas a lungo.

Gli strumenti itineranti di Sergio Balia

Molto più a valle lungo il corso del Tirso, a Donigala Fenughedu, vive e lavora Sergio Balia. Per via dei suoi impegni non riesco ad andarlo a trovare nel suo laboratorio, ma dato che il suo lavoro è il venditore ambulante di strumenti musicali tipici che lui stesso costruisce, lo raggiungo proprio sul lavoro.

Il banchetto delle meraviglie di Sergio Balia

Per una volta, non siamo davanti all’ultimo rappresentante di una lunga dinastia di liutai: Sergio è un costruttore autodidatta nato a Sant’Antioco, con un passato da muratore e un “esilio” in continente di cui ricorda solo le zanzare, poi la fuga dalle paludi padane e il ritorno nella sua Sardegna, dove si è inventato questo lavoro imparando da zero. La sua idea, più che un progetto imprenditoriale mi sembra una missione: da un punto di vista economico farebbe forse meglio ad ordinare uno scatolone di fidget spinner su Alibaba per rivenderli sul suo banchetto, ma questa è la vita che ha scelto: “mi piace troppo girare per la Sardegna col mio banchetto, soprattutto ai festival dove posso confrontarmi con altri musicisti” dice “il mio prossimo obiettivo è di uscire dalla Sardegna e cominciare a frequentare qualche fiera nel nord italia“.

Una giraffa da fumare? Una pipa da suonare?

Il suo banchetto è pieno di benas e launeddas di diversi tipi: ci sono molti esemplari di uno stesso modello, ma non trattandosi di una produzione industriale è necessario provarli e farli provare al cliente prima di venderli. “La canna è una materia viva” mi spiega mostrandomi come si legano tumbu e mancosa con filo peciato, “basta una variazione di umidità o di temperatura perché perda l’accordatura: per questo ai musicisti è richiesta una certa manualità, devono sapere dove mettere le mani in questi casi, e finiscono con il conoscere abbastanza intimamente lo strumento da saperlo anche costruire“. Ecco perché si dice che benas e launeddas sono strumenti generalmente costruiti da chi li suona, ma quelli di Sergio hanno delle particolarità: “Le zucche, tagliate in un certo modo per farne una cassa di risonanza, la distanza tra i fori e tra fori ed imboccatura, sono frutto di prove ed errori e non sono copiati da modelli preesistenti, e poi c’è la bena a quattro canne che è un modello che faccio solo io!”.

Arte dimenticata: rifinendo l’ancia di una launedda

Oltre a questo i suoi strumenti sono decorati con il pirografo con motivi del folklore sardo e firmati con il soprannome di Sergio Gioghista (giocoliere), e nei modelli più elaborati le zucche sono intagliate come maschere o in modo da somigliare ad animali. Vi sono poi esempi di pipiolu (una specie di zufolo) in osso di pecora, una lavorazione più difficile rispetto alla canna che richiede un intero giorno: proprio niente male soprattutto se consideriamo che ho potuto vedere solo gli esemplari in vendita, non quelli che tiene per sé!

Benas cun zucca, una delle specialità di Sergio Balia

Chiedo a Sergio se l’iscrizione delle launeddas nel patrimonio Unesco abbia risvegliato l’interesse collettivo verso questi strumenti, e ne approfitto per estorcere qualche altra informazione sulle famose canne, ma mi risponde con amarezza: “a nessuno interessa niente delle launeddas e della tradizione! A Gesturi c’era un canneto speciale, le canne diventavano arancioni ed erano le migliori, fior di botanici sono venuti dall’università a studiarle, ma niente ha impedito che il canneto venisse distrutto per farci una cava!“. Purtroppo la politica dell'”uovo oggi” non è un problema solo qui: per pochi posti di lavoro siamo disposti a passare con i bulldozer sopra qualunque tradizione, una ricchezza culturale immensa che ha il solo difetto di non essere immediatamente monetizzabile. Ho comunque imparato che è nella Marmilla e nella Giara di Gesturi che si trovano le canne migliori, ecco un altro buon motivo, oltre ai famosi cavallini, per visitare quelle zone remote della Sardegna!

Di passione, ricerca e innovazione: le contaminazione etniche di Raimondo Usai

Lasciato Sergio al suo lavoro, il mio itinerario mi ha condotto nel paese di Seneghe. Se cerchiamo le principali attrazioni del luogo su Tripadvisor, la prima è la casa di Raimondo Usai. Di per sé è un fatto piuttosto strano: si tratta di una privata abitazione, non di una villa o di un castello, simile a tutte le altre case che si trovano nella stessa via. Ma vi basterà prendere un appuntamento per capire cosa ci sia di tanto eccezionale e Raimondo vi aprirà il suo… mondo di meraviglie. Al di là della porta, attraversato il disimpegno dell’appartamento si apre un grande giardino interno pieno di erbe aromatiche, e al termine del giardino un piccolo edificio ospita il laboratorio e lo showroom di un costruttore di strumenti davvero eclettico. L’approccio di Raimondo è quasi all’opposto di quello adottato da tutti gli altri costruttori di strumenti musicali che ho incontrato in questo viaggio: mentre a questi ultimi interessa soprattutto conservare e tramandare una nobile tradizione, per Raimondo la tradizione è un punto di partenza per un approccio costruttivo più sperimentale, che potrei definire “avanguardista”. Dalla tradizione, Raimondo (o semplicemente Mondo, come viene chiamato dagli amici) prende i principi costruttivi e i materiali, ma la sua ricerca è orientata al suono, e non disdegna sperimentare materiali diversi, o contaminare i principi costruttivi sardi con quelli tipici di altre aree geografiche. Gli strumenti che ne nascono emettono suoni mai sentiti eppure “antichi”, e nei modelli più elaborati si travalica il confine tra strumento musicale e pezzo di design: sono dei piccoli capolavori in stile cargo cult che non sfigurerebbero sulla mensola del camino di un salotto etno-chic.

Raimondo Usai nella sua “galleria” a Seneghe

L’origine di questa sua non aderenza all'”ortodossia” costruttiva sarda la si deve ricercare, forse, nel fatto che Mondo è figlio di immigrati di origine sarda in Francia, dove ha vissuto per tutta la prima giovinezza. Lo si vede anche dal fatto che sul suo banco non c’è la classica patada: da buon francese, lui usa un Opinel!
Nel suo laboratorio ha accumulato una montagna di canne di diverse specie, pelli ed ossa di animali, zucche, legno, metallo e una quantità impressionante di vesciche di maiale, come se ogni abitante del paese gli avesse commissionato una serraggia.

Per un suono speciale… vesciche di maiale!

Mondo è anche un esperto erborista, e grazie alle sue nozioni botaniche riesco finalmente ad avere qualche ragguaglio sulle canne, che sono diventate il filo rosso di questo viaggio. “La canna comune, o Arundo donax, è sempre stata usata per la costruzione dei solai, o come sostegno nei vigneti e per le piante di pomodoro. In campo musicale è il materiale di cui sono fatti i flauti sardi (pipiolu e sulittu) e il tumbu (bordone) delle launeddas” spiega Raimondo, “deve essere lasciata crescere due anni, poi tagliata a Febbraio, con la luna in fase calante, quindi lasciata seccare almeno un mese e riposta per la stagionatura. Gli esemplari che, nonostante l’età, rimangono più sottili sono usati per le ance“. La famosa canna mascu, con cui si costruiscono le launeddas, sarebbe invece un’altra varietà: Arundo pliniana turra o, più probabilmente una specie ancora più rara che in Italia si trova – appunto – solo in Sardegna, la Arundo micrantha. Raimondo è l’unico tra i suoi “colleghi” che ammette nel suo laboratorio anche la canna furistera, cioè la canna straniera: il bambù.

Nello studio di Mondo Usai si fa sul serio!

Mi mostra come costruire un’ancia partendo da un tubicino di canna tagliato in concomitanza di un nodo, una cosa che è abituato ad insegnare anche nelle scuole dove porta avanti progetti di ri-educazione alle tradizioni musicali locali. Sembra facile, ma ci sono alcune accortezze a cui fare attenzione: il senso della costruzione rispetto alla direzione della canna, il modo in cui la lamella si può staccare dal resto della canna senza romperla, la necessità di rinforzare l’imboccatura con qualche giro di filo impeciato, ma soprattutto la necessità di lavorare la canna dall’interno, più che dall’esterno: la cuticola che ricopre la canna la rende impermeabile e rimuovendola lo strumento perderebbe presto l’accordatura, impregnandosi di saliva. Questo genere di ance viene usato sia nelle benas che nelle launeddas, con la differenza che nella bena la parte vibrante viene leggermente levigata per l’accordatura, mentre nelle launeddas il compito di rendere più o meno leggera l’ancia è affidato ad un pezzetto di cera. La forma e la posizione dei fori nel corpo dello strumento (rettangolari e tutti sul davanti nelle launeddas, tondi e con foro posteriore nelle benas) è l’altro grande carattere distintivo. Secondo Raimondo i fori rettangolari, che sembrano costruttivamente un po’ controintuitivi, hanno il vantaggio di poter essere allungati e spostati (entro un certo limite, usando altra cera per tappare una delle estremità) per trovare l’accordatura perfetta.

Raimondo Usai lavora uno stelo di canna dall’interno per farne un’ancia

Raimondo si è cimentato nella costruzione di tutti gli strumenti della tradizione, oltre al legno anche lavorando il ferro e la terracotta, con cui ha costruito tra le altre cose alcune zimbombas, uno strumento che ho visto solo qui e di indubbia origine spagnola (dove è presente con il nome di zambomba) e il famoso trimpanu, che grazie al suo suono fastidioso veniva usato dai banditi per disarcionare i carabinieri a cavallo. Tra tutti i costruttori che ho incontrato è l’unico ad avere un vero un sito internet (nonché una connessione internet, aggiungerei), e a comparire addirittura su Spotify con i suoi Prendas. Tuttavia, l’e-commerce non è ancora il suo forte, e da quando ha smesso di fare l’ambulante l’unico modo per comprare i suoi strumenti è andarlo a trovare nella sua casa-museo-laboratorio di Seneghe, dove sono disponibili anche i suoi interessanti prodotti erboristici. Per fortuna, dico io. Perché è bello vedere che esiste ancora un mondo “pre-Amazon“: dove l’acquisto di un oggetto non è solo un mero comprare, ma implica la conoscenza del venditore e del suo mondo, un confronto aperto, il poter provare tutti gli strumenti che si vuole, osservare, toccare, cambiare idea, mettersi in cammino e magari finire la giornata in chiacchiere davanti un buon amaro. E’ per questo che lasciandolo mi permetto di scherzare con lui: “dì la verità, si guadagna di più vendendo strumenti o liquori?”, mi rispondo da solo, tornando a casa con due bottiglie di ottimo amaro alle erbe, ma con l’idea di ritornare.

I soli organetti made in Sardegna: Domenico Ciantra

Per terminare il mio viaggio con qualcosa di completamente diverso, mi reco a Ghilarza. Qui, oltre alla famosa casa museo Gramsci, c’è il laboratorio di Domenico Ciantra, il primo e unico costruttore di organetti della Sardegna. L’organetto non è endemico della Sardegna: è uno strumento di origine austriaca che venne importato in Italia dall’imprenditore Paolo Soprani intorno al 1860. Strumento compatto e particolarmente adatto per le musiche popolari, l’organetto si diffuse molto rapidamente e arrivò in Sardegna dove presto soppiantò quasi completamente la fisarmonica. Rispetto a quest’ultima, l’organetto può suonare solo la scala maggiore e rende quindi fisicamente impossibile suonare qualcosa di triste. Nelle parole di Domenico: “si dice che l’organetto ha solo il sorriso: è uno strumento fatto apposta per le feste, che Soprani lanciò forse per festeggiare l’unità d’Italia“. L’organetto si impose quindi come strumento d’elezione per le occasioni di festa, mentre per la musica liturgica si adottò l’armonium. In Sardegna oggi l’organetto è immancabile in ogni festa di paese, come ben sa ogni turista che vi sia incappato, ben più raramente, e solo in occasioni prettamente musicali, è possibile ascoltare ancora suonatori di strumenti più antichi, come le famose launeddas.

Strumenti in esposizione e ricordi nello studio di Domenico Ciantra

Non mi stupisce quindi sapere che Domenico è, come del resto il suo strumento, un Sardo d’adozione. Nato in provincia di Pescara da una famiglia di costruttori di organetto, negli anni ’60 lo vediamo suonare la chitarra nel complesso beat le piccole ombre, poi la sua professione nel campo dell’arredamento lo porta tra la Lombardia e l’Abruzzo, ma il suo amore per la musica non viene mai meno, finché non decide di trasferirsi a Ghilarza, il paese della moglie. Qui trova la pace, ritmi di vita più umani e finalmente riscopre l’antico mestiere di famiglia. L’organetto, ormai entrato a pieno titolo tra gli strumenti tradizionali della Sardegna, aveva l’anomalia di essere sempre un oggetto “di importazione” ed è grazie a Domenico se oggi esistono anche organetti “made in Sardegna”. “I Sardi non suonano come gli altri, solo vivendo qui ho imparato a conoscere le loro esigenze” spiega Domenico “hanno uno stile particolare, giocano molto sulla repentina apertura e chiusura del mantice, e vogliono le ance accordate secondo il cosiddetto “tremolo sardo” che si usa solo qui“. Su uno strumento tanto complesso crea qualche problema anche il tipico approccio dei sardi sugli strumenti musicali, particolarmente “fisico”, su questo Domenico scherza: ” …e poi servono strumenti molto robusti, perché tendono a maltrattarli!”. Ma gli organetti Ciantra sono davvero robusti, e sono garantiti a vita, nel senso che una volta comprati, alla bisogna vengono riparati gratuitamente; e Domenico orgogliosamente rileva che a rompersi sono, il più delle volte, gli unici componenti che non sono prodotti da lui, le ance metalliche. Tutto il resto, le parti in legno (soprattutto ciliegio ed acero), le parti in laminato plastico, quelle in metallo, i complessi meccanismi interni che richiedono una precisione assoluta, gli abbellimenti traforati, è prodotto nel suo laboratorio: l’unico “vero” laboratorio che ho visto in questo viaggio, nel senso che è l’unico dotato di macchinari per il legno e strumenti dedicati alla lavorazione dei diversi materiali. Resto impressionato davanti ad una parete sulla quale è ordinata una enorme quantità di morsetti e mi lascio scappare una battuta, Domenico mi risponde secco “dovrei comprarne molti altri“.

Domenico Ciantra nel suo laboratorio: “devo proprio comprare qualche altro morsetto!”

Il lavoro non manca: per costruire un organetto da zero Domenico impiega circa una settimana, e poi ci sono le numerosissime richieste di riparazione: rivolgersi a lui è l’unica opzione che si ha in Sardegna per non spedire lo strumento danneggiato “in continente”, e gli organettisti sull’isola oggi sono davvero tanti. Bisogna anche considerare che, come accade per ogni altro strumento diatonico (come l’armonica a bocca per esempio), ogni suonatore di un certo livello deve possederne anche 3 o 4, per adattarsi alle varie tonalità richieste.
La nostra visita termina nello studio / showroom di Ciantra: fa bella mostra di sé una vetrina-campionario dei suoi modelli, alle pareti alcune vecchie foto delle piccole ombre, su un piedistallo un sitar proveniente da chissà dove e un altro organetto, visibilmente più antico degli altri: “l’ha costruito mio zio e non se ne trovavano più, un giorno si è presentato un tizio che voleva farselo riparare: gli ho proposto di lasciarmelo, e prenderne in cambio uno nuovo dei miei!

Lascio Domenico, la sua umiltà e la sua casa e mi rimetto in viaggio: durante questa piccola immersione nel mondo della musica tradizionale ho visto una Sardegna diversa. Certo, importanti collezioni di strumenti musicali storici si possono osservare al Museo Etnografico di Nuoro e, seppur con una sistematica meno rigorosa, al museo casa Satta di Gavoi.

Dal caos all’ordine: gli strumenti sardi numerati in una teca del museo etnografico di Nuoro

Ma nessun museo può restituire le voci appassionate di quegli uomini che li hanno costruiti, le loro mani esperte e la loro conoscenza cresciuta direttamente sui banchi di lavoro, nel silenzio di piccoli garage e nelle cantine delle loro abitazioni. Come un seme che cresca sotto terra, questo è un mondo quasi invisibile, ma che con costanza e caparbietà dà alla luce i più bei germogli. E’ un mondo che non va perduto.

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