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Sardegna: musica e tradizione
Parte I – La Barbagia
Le loro case sono piccoli musei, i loro laboratori hanno l’aspetto di botteghe medioevali, i costruttori di strumenti tradizionali in Sardegna sono gli ultimi custodi di un’arte antica, un tipo di artigianato che è fino ad oggi sfuggito all’industria del souvenir, e che pure racchiude in sé l’anima arcaica e rurale dell’isola.
Ho voluto conoscere e documentare alcuni protagonisti della liuteria tradizionale sarda, scoprendo un mondo affascinante, fatto di dedizione ed abilità, ma anche di forte orgoglio per le proprie radici, e una ferma volontà di portare avanti la tradizione. Mi hanno invitato nelle loro case, dove sono entrato con rispetto, evitando di toccare la materia con piglio troppo leggero: oltre alla passione di una vita, ad alcuni di loro stavo in fin dei conti chiedendo di risvegliare affettuosi ricordi di familiari ormai scomparsi e vicende lontane, e non è da tralasciare l’attaccamento alle proprie origini culturali che in Sardegna è fortissimo, e non solo in chi si occupa di folklore.
Ho iniziato questo viaggio in Barbagia, il cuore della Sardegna, dove la musica tradizionale si identifica spesso con il canto a concordu dei tenores ma anche dove, in alcuni luoghi, è ancora possibile ascoltare la musica strumentale che scandì la vita dei pastori nei secoli passati.
Sos tumbarinos de Gavoi
Gavoi è un borgo di scalpellini sulla montagna sarda a 40km da Nuoro, le sue case in granito sono tenute come gioielli ed il panorama che si gode è ampio e verdeggiante. Tutto sembra concorrere al riposo e alla pace interiore ma c’è un giorno dell’anno, il giovedì grasso, in cui il ritmo suonato all’unisono da centinaia di tamburi arriva fino alle valli circostanti: sono i tumbarinos de Gavoi, il tradizionale carnevale che trasforma per un giorno il paese in un girone dantesco e richiama appassionati da tutta l’isola. Ci accoglie un’autorità locale: il presidente dell’associazione “sos tumbarinos de Gavoi” Pier Gavino Sedda.
E’ grazie a lui e ad un manipolo di altri irriducibili se la tradizione, arrivata sull’orlo dell’estinzione a metà degli anni ’80, ha ricevuto una spinta tale da diventare un’attrazione di prim’ordine nel già affollato mondo dei carnevali barbaricini.
“Oggi abbiamo almeno una decina di ottimi costruttori di tamburo a Gavoi, e quasi ogni giovane vuole costruire il proprio” racconta orgoglioso Pier Gavino, mentre mi illustra le fasi costruttive dello strumento. Nei modelli esposti nei musei il fusto del tamburo lo si trova in corteccia di sughero, ma Pier Gavino, che di professione commercia in Fiore Sardo, trova molto più semplice ricavarlo dalle grosse forme in legno del pecorino romano: “per un fusto dal diametro di 35 centimetri ne unisco due con il vinavil”, spiega indicandomi una catasta di forme.
Le pelli più comunemente usate oggi sono di capra, ma un tempo si usavano anche pelli di cane: “hanno un suono più cupo, più adatto al tamburo, anche se danno qualche problema di trasudazione, è una pelle troppo grassa. Da questo punto di vista quella di capra è perfetta, e comunque oggi quella di cane non la useremmo più neanche se fosse permessa”. I cani, lo dico per inciso e a scanso di equivoci, NON venivano uccisi ad hoc, neanche nei tempi andati, ma recuperati dalla strada dopo gli incidenti. Tornando a noi, le pelli fresche vengono trattate con acqua e cenere e sotterrate per una settimana, il pelo può quindi essere strappato con le dita: di fatto questa è la stessa tecnica di concia che usavano i primi uomini che si presero la briga di indossare qualcosa nelle caverne, è davvero particolare ritrovarla nel 2018!
Una volta bagnate, le pelli hanno una certa elasticità e possono essere tese e cucite con un grosso ago (quello di Pier Gavino è ricavato da un’asta di ombrello) su due pezzi di fil di ferro chiusi ad anello. Montate sui fusti, le pelli vengono ulteriormente tese tramite la legatura a spago, poi una corda ottenuta da crini di cavallo viene tesa lungo la pelle posteriore, e svolge la funzione della cordiera di fili di acciaio montata dietro al rullante del vostro gruppo rock preferito. Le grosse bacchette, infine, sono lavorate a coltello da legno di pero o di agrifoglio.
I Tumbarinos suonano in gruppo, o in trio con un triangulu e un pipiolu. Il pipiolu è uno zufolo di canna, più raramente di osso, di circa 17 cm di lunghezza, che qui viene costruito con 4 fori davanti e uno posteriore, e si distingue dagli altri zufoli sardi per avere il nodo della canna in basso, e per la scala nella quale è intonato, che si usa solo qui e viene infatti chiamata “scala di Gavoi”. Il più apprezzato costruttore e suonatore di pipiolu del paese è Luigi Rocca, mentre i triangoli, grandi come piatti da pizza ma più pesanti, ricavati da tondini di ferro dello spessore di un dito, suonano come campane e sono forgiati dai fabbri locali Gavino e Carmelo Pira.
Pier Gavino ci racconta dei viaggi fatti con l’associazione in Marocco, in Russia, perfino in Kazakistan, e vedendomi interessato agli strumenti mi mostra una lunga canna: all’estremità superiore è legato uno strano palloncino, sul quale viene tesa una corda in ottone tramite una rudimentale “chiave” posta all’altra estremità. “Si chiama serraggia, la corda di ottone la usiamo solo a Gavoi, altrove usano acciaio, e anticamente si usava il budello. Serviva a tenere lontane le volpi e le martore, perché oltre al rumore che senti, quella vescica di maiale emette degli ultrasuoni che le mettono in fuga. Oggi è uno strumento musicale”. Il palloncino, quindi, era una vescica di maiale.
Ecco una delle cose che adoro dei Sardi: mentre “in continente” tutto il processo che porta la carne dai pascoli alla nostra tavola è una specie di rimosso collettivo, perso nella massificazione degli allevamenti, qui la macellazione è vissuta senza ipocrisie, nella sua quotidiana concretezza e nella dimensione ancora familiare dell’economia pastorale. Tutti sembrano avere un amico nell’industria della carne che in cambio di una stretta di mano può facilmente reperire una vescica di maiale per farne una serraggia, una tibia di pecora per un pipiolu, una pelle fresca di capra per un tumbarinu… se dovessi cercare a casa mia questo genere di materie prime verrei guardato con una certa circospezione, e probabilmente finirei attenzionato dalla questura! Pier Gavino ci saluta con il suono di un altro tamburo: “senti la differenza? questa è pelle di canguro!” (La pelle ricavata dal marsupiale è usata solitamente per abiti sportivi, come le tute da moto e alcune scarpe) .
Canne al vento: le vidulas di Peppe Cuga
Non lontano da Gavoi sorge il paese di Ovodda, il centro geometrico della Sardegna: questa non è la Sardegna delle riviste, qui il mare non è minimamente contemplato: per arrivare ad una qualunque delle due coste dell’isola servono almeno 90 minuti di auto, praticamente è come andare al mare da Pavia o da Novara. In compenso, il paese è circondato da incantevoli campagne e da due laghi artificiali: il Gusana e il Cucchinadorza. Qui mi sta aspettando Peppe Cuga, l’ultimo suonatore di vìdulas.
Il termine vìdulas (o bìdulas) qui indica lo strumento che nel resto della Sardegna è noto con il nome di launeddas: uno strumento a fiato a tre canne il cui suono ricorda quello della zampogna, ma che costruttivamente è completamente diverso, e si pensa sia endemico dell’isola o comunque presente fin dalla preistoria. Le launeddas sono state dichiarate Patrimonio Immateriale dell’Umanità dall’Unesco, ed hanno diversi illustri esponenti in altre zone della Sardegna, su tutti ricordiamo Luigi Lai di San Vito e Giovanni Casu di Cabras, ma questa è la Barbagia, tutto un altro mondo. Peppe non usa mai il termine “launeddas“, usa la sua lingua, ma soprattutto usa lo strumento in modo del tutto particolare, lo stile di Ovodda (di cui è l’unico esponente) che non ha niente a che vedere con lo stile campidanese. Me ne accorgo perfino io, che non sono certo un esperto di musica sarda, che quello che esce dalle sue vìdulas è un suono diverso, arricchito con abbellimenti che sono assenti nei pochi spezzoni di musica per launeddas che ho ascoltato durante la preparazione a questo incontro.
Le vìdulas erano lo strumento più utilizzato per tutte le occasioni e ricorrenze, prima che l’avvento dell’armonium le sostituisse nelle chiese, e l’organetto nelle feste di piazza. Ci fu un adattamento del repertorio delle vìdulas per i nuovi strumenti ma come é prevedibile, la maggior parte della tradizione andò perduta. Nella chiesa di Ovodda in particolare l’armonium arrivò intorno al 1920, e Peppe mi riferisce di una compaesana che ricordava di essersi sposata al suono delle vìdulas: era il 1917, e il suonatore non era casuale, si trattava infatti di Giuseppe Cau.
Giuseppe Cau, era il nonno di Peppe Cuga, ed era dotato di un fiato leggendario, tanto che, alimentando la leggenda, si fece costruire uno strumento particolarmente esigente in termini di flusso d’aria, che solo lui era in grado di suonare. Bisogna considerare che per le vìdulas è necessario usare la tecnica del fiato continuo: mantenere un flusso costante non è affatto facile, e più lo strumento richiede fiato, più è difficile mantenere un soffio uniforme. A sua volta, Giuseppe era il nipote di un altro omonimo Giuseppe Cau, già registrato come “zampognaro” in un documento datato 1837. Ma fermiamoci qui, o verrebbe fuori che il famoso bronzetto suonatore di Ittiri, che troviamo raffigurato anche sul biglietto da visita di Peppe, è in realtà il ritratto di un suo trisavolo!
Peppe è pieno di storie sulla sua carriera di musicista, come quella volta in cui in una situazione di emergenza riuscì con un coltello a cambiare la tonalità di uno strumento, o di quando riuscì a mettere a suo agio un impacciato Mark Harris (già tastierista di Fabrizio De Andrè) in visita ai parenti sardi della fidanzata… ma ne avrebbe per giorni se dovessimo aprire anche il capitolo della sua turbolenta vita di operaio e sindacalista… a malincuore quindi riporto la conversazione sui binari dello strumento, dal punto di vista costruttivo. Le vìdulas sono costituite da tre diverse canne, ognuna dotata di un’ancia rimovibile all’estremità superiore: la canna centrale è più lunga ed è priva di fori per la diteggiatura, si chiama “su tumbu” e la sua funzione è quella di emettere un basso continuo, o bordone, che ha una nota fissa. Le due canne laterali si suonano invece con la mano destra (destrina) e con la sinistra (mancosa), sono dotate di quattro fori, tutti anteriori e curiosamente di forma rettangolare, un quinto foro posto più in basso serve ad accordare lo strumento. Su tumbu, risultando molto più lungo delle altre canne, può essere smontato in due parti per essere riposto, ed è ricavato dalla canna comune. Sa mancosa e sa destrina sono invece ricavate da una varietà di canna che qui chiamano “canna mascu“, cioè canna maschio: una varietà dotata di un legno più spesso e nella quale si apprezza una maggiore distanza tra i nodi.
Tumbu e mancosa sono legate insieme da spago impeciato, mentre la destrina è libera ed è l’ultima parte che il suonatore mette in bocca dopo aver intonato e iniziato a suonare le altre due. Si tratta di uno strumento piuttosto complesso, che non posso dilungarmi a descrivere ma posso consigliarvi ottimi testi sull’argomento, come Sonos di Gian Nicola Spanu, dove si trova una disamina di tutti gli strumenti tradizionali sardi.
Peppe Cuga è un suonatore di prim’ordine, ma anche un apprezzato costruttore di vìdulas. Non ha comunque l’abitudine di costruirne per venderle, dai suoi racconti mi pare di capire che sono molte di più quelle che ha regalato ad altri musicisti che gli avevano fatto qualche favore. Peppe mi mostra con orgoglio una sua ingegnosa innovazione all’impianto classico dello strumento: in alcuni esemplari infatti la lunga canna del bordone non è singola, è invece ricavata da due tronconi affiancati e uniti a formare una U. In questo modo lo strumento non solo è più compatto e bilanciato, ma presenta il vantaggio di avere le tre sorgenti sonore molto ravvicinate, rendendone assai più facile la microfonazione. Si tratta di un’esigenza non certo maturata negli studi di registrazione, quanto nelle situazioni spesso precarie che si possono incontrare sui palchi delle feste di paese: una sola sorgente sonora, un solo microfono è un compito facile anche per il più improvvisato dei fonici! Questo dettaglio potrebbe forse apparire “strano” ad altri suonatori di launeddas, e di certo costringe l’esecutore ad una diversa impostazione.
La particolare soluzione costruttiva, l’assenza di decorazioni di sorta, lo stile esecutivo e il repertorio sono tutti elementi che concorrono a distinguere le vìdulas di Peppe Cuga dalle launeddas del resto della Sardegna; a lui piace scherzare sul fatto (che invece è tragico) che con lui si estinguerà la tradizione di Ovodda, e per esteso di tutta la Barbagia, ma “i giovani non vogliono imparare” e così è la vita… da parte mia, al di là dell’amara consolazione di aver assistito a qualcosa di raro e straordinario non credo di aver fatto nulla di speciale per la salvaguardia di questa tradizione ma spero che queste righe possano incoraggiare qualche giovane ad imparare, e qualche cacciatore di musica etnica a presentarsi a casa di Peppe con un buon microfono, e salvare il salvabile.
Il fuoco si fa musica: le trunfas di Pierpaolo Piredda
Il nostro viaggio in Barbagia termina a Dorgali, il paese di origine di un’altra antica famiglia di costruttori di strumenti musicali: qui i fabbri Piredda costruiscono scacciapensieri da almeno cinque generazioni.
Il primo Piredda di cui si abbiano notizie certe è il bisnonno Sebastiano; i segreti del ferro e del fuoco vennero poi tramandati al nonno Pietro, quindi al padre Antonio e a suo fratello Costantino (Lillinu), ed oggi la tradizione è portata avanti dai due figli di Antonio: Pietro Paolo e Ignazio. Ed è proprio Pierpaolo Piredda ad accoglierci nel suo seminterrato di Orosei, attrezzato un po’ da taverna, un po’ da museo, un po’ da laboratorio.
Lo scacciapensieri è uno strumento di antichissime origini, forse asiatiche, presente nella musica tradizionale di molti paesi del Mediterraneo e ad est fino in India e in Cina, nelle sue varianti costruttive. In Sardegna sembra sia arrivato intorno al 1700, forse portato dai Siciliani, e ha preso il nome di trunfa o, come viene chiamato nel dialetto di Dorgali, trumba. Va notato che lo stesso strumento veniva chiamato trump in Inghilterra e in Francia: sta forse proprio nel dialetto di Dorgali la chiave per capire la strada percorsa dallo scacciapensieri per arrivare in Sardegna?
Pierpaolo ci mostra la sua collezione di trunfas provenienti da ogni angolo della Sardegna e del mondo, tra i pezzi più interessanti un ingegnoso modello a lamella intercambiabile, costruito dall’artigiano Edilio Vacca di Nuoro, ed uno strano prototipo di forma rettangolare, diverso da tutti gli altri modelli che condividono la tipica forma a cipolla: “l’ha fatto per me Michelino Loi, un costruttore dalla manualità e inventiva straordinarie” mi spiega Pierpaolo. Sono stupito di questa coincidenza, perché dopo pochi giorni incontrerò proprio Michelino Loi sulla costa opposta dell’isola: vorrà dire che gli porterò i saluti dei Piredda! Ci sono poi alcuni modelli “da collezione” creati dallo stesso Pierpaolo, che per inciso annovera tra le sue competenze anche quella della gioielleria: ce n’è una a forma di chiave di violino, un’altra a forma di chitarra, una antropomorfa con innesti in madreperla, con una catenina sarebbero ottimi come pendagli!
Poco dopo ci spostiamo nell’angolo della stanza di lavorazione: un paradiso per fotografi fatto di antichi strumenti e macchinari. L’incudine è ormai reso concavo da cent’anni di martellate, il vissuto banco da lavoro potrebbe essere venduto a migliaia di euro per arredare un loft milanese, c’è poi un’incredibile molatrice in legno azionata a pedale che sembra presa da un museo sul medioevo, e una piccola forgia a manovella.
Pierpaolo sembra volersi scusare per la forgia: “ne avevamo una più antica, bellissima, col mantice, ma ha bisogno di restauro…”. Io fotografo tutto da ogni angolo come se fossi un agente della scientifica sulla scena del crimine e sarei già soddisfatto così, ma con mio stupore Pierpaolo si dice disposto a mostrarmi come si costruisce una trunfa con la tecnica classica: non mi aspettavo tanto!
Così accende la sua forgia alimentata a carbone di erica e al girare della manovella cominciano a fioccare le scintille.
Le trunfas sono ottenute da bacchette di ferro della dimensione di una matita, queste vengono scaldate sulla forgia fino a diventare malleabili, quindi si lavorano a martello, prima assottigliandone ed appiattendone le estremità, poi curvandole nella tipica forma tondeggiante che segue l’ergonomia della mano. Tra una martellata e l’altra mi spiega qualche semplice principio della sua arte: “ci vuole buon occhio per capire quando il metallo è pronto per essere lavorato, se si scalda troppo può fondere”. Ho già visto fabbri lavorare alla maniera antica, ma mai dei pezzi così piccoli: “sembra facile ma bisogna imparare da bambini: il pezzo tende a saltare via dalla pinza anche a fabbri esperti se non sono abituati a lavorare cose piccole”.
Mi rendo conto di assistere a qualcosa di davvero eccezionale man mano che il pezzo prende forma: la precisione delle due estremità è sub-millimetrica, ed è ottenuta esclusivamente a martellate. Nella mia abissale ignoranza, pensavo che il telaio venisse colato in uno stampo, e che la linguetta venisse poi saldata; sulla mia prima supposizione tengo la bocca chiusa, ma mi lascio scappare la seconda: “la lamella non viene saldata, non potrebbe suonare! Si piegherebbe e dopo poco si romperebbe, ora ti faccio vedere come si fa…” Pierpaolo scava un alloggio a coda di rondine sul fondo del telaio, quindi taglia una linguetta da una striscia di acciaio armonico, la inserisce nell’alloggio appena creato dove viene bloccata ribattendo il ferro sulla stessa. “Ecco come si attacca la linguetta! Ma ora vediamo di accordarla, vorrei farlo in la“.
Ecco il momento in cui passo dalla semplice ammirazione alla meraviglia metafisica: non sapevo nemmeno che gli scacciapensieri venissero intonati, e faccio di nuovo l’errore di dirlo a Pierpaolo: “certo che vengono intonati, altrimenti come faresti a suonare insieme ad altri? Noi ormai riusciamo a farli di ogni tonalità, e i suonatori di trunfas devono sempre avere con sé strumenti di varie tonalità per adattarsi ai vari balli che suonano”. Solo ora capisco il senso del modello a lamelle intercambiabili fatto a Nuoro che avevo visto nella collezione, e mi preparo ad imparare come si accorda uno scacciapensieri: “è facile” dice Pierpaolo “per abbassare la nota si lima un po’ la linguetta verso l’estremità attaccata al telaio, per alzarlo si assottiglia l’altra estremità”. Accende un accordatore elettronico e prova lo strumento: ormai non mi stupisco più di niente ma posso giurare che, senza averlo mai fatto vibrare né aver preso misure di nessun tipo, solo affidandosi al suo occhio e lavorando a martellate, Pierpaolo aveva mancato il la di 30 centesimi di semitono a dir tanto, e con la stessa disinvoltura e la stessa velocità che io impiegherei ad intonare una corda di chitarra girando la sua chiavetta, Pierpaolo con due colpi di lima porta la lancetta dell’accordatore a spaccare lo zero in due. Io resto senza parole.
Giro un breve filmato di rito mentre suona la trunfa appena costruita, e già che ci siamo mi fa ascoltare un poco gli altri strumenti: Pierpaolo infatti oltre a costruire trunfas e forgiare gioielli canta nel coro di Orosei e suona armonica a bocca, launeddas, flauto sardo e naturalmente trunfas in un trio etno-jazz chiamato Ethnos, per tacere dei suoi dipinti e delle sue sculture in terracotta! Costruire scacciapensieri non è il suo lavoro: Pierpaolo è di fatto un pensionato ex insegnante nella scuola d’arte di Nuoro, dove tutt’oggi lavora il fratello minore Ignazio; costruisce le trunfas solo per gli amici musicisti che glielo chiedono. Lo zio Lillinu fino a qualche tempo fa ne produceva in quantità per la vendita nei negozi di artigianato locale, ma quella produzione è oggi quasi azzerata. Alle mie legittime preoccupazioni sul futuro di questa tradizione, che in Sardegna è quasi interamente sulle spalle dei Piredda, mi risponde con leggerezza, in quello che mi suona come un ottimo esempio del sottovalutato humor sardo: “il futuro della trumba in Sardegna? beh, mio fratello ha due figli…”
Finisce così la mia prima esplorazione nel mondo della costruzione di strumenti musicali sardi. Al termine capisco quanto la musica sia legata intrinsecamente alla vita agro-pastorale, ai suoi momenti di festa, i suoi riti e i suoi costumi. Un universo per fortuna tenace, custodito quasi con gelosia dalla popolazione, ma che inevitabilmente ha cominciato a cedere con i cambiamenti globali. Mi sento lusingato di averne potuto conoscere qualche tratto e mi rendo conto di essere solo all’inizio del viaggio.
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