Un giorno, in un mercatino come tanti, ho comprato un ciondolo in onice nero che poi ho dimenticato nel portagioie. Mi sono sempre piaciuti questo genere di gioielli con le pietre dure, più ancora dei pezzi in oro, ma non mi sono mai chiesta perché.  Sono passati molti anni da quel giorno, fino a che, durante il mio ultimo viaggio in Sardegna, mi sono imbattuta in una mostra ad Orosei che mi ha attirato a sé come un magnete. La mostra si intitolava Prendas contra s’ògu malu e  dopo averla visitata non ho potuto fare a meno di tirare fuori quel vecchio ciondolo dal cassetto e indossarlo con consapevolezza.

Quella mostra, di cui purtroppo non posseggo foto, vietate dai loro promotori, mi ha in effetti spalancato un mondo nuovo e messo una tale curiosità che non vedo l’ora di tornare sull’isola per approfondire l’argomento. L’esposizione era una raccolta di monili realizzati dall’orafo Nanni Rocca che, dopo anni di studi e ricerche, ha fedelmente riprodotto i tradizionali amuleti sardi. Davanti ai miei occhi sfilavano reliquie, frammenti del quotidiano come tessuti e pezzi di carta, pietre, erbe, corna, conchiglie e ossa animali sapientemente riassemblati in una serie di oggetti carismatici a cavallo fra devozione e riti apotropaici di derivazione pagana. Da questi bellissimi manufatti, parte di esposizioni permanenti in ben 4 musei della Regione, emergeva la forza di un intreccio sotterraneo di credenze e tradizioni che all’avvento del Cristianesimo non soltanto ha resistito, ma da esso ha tratto nuova linfa al punto da rendere inscindibile l’uno dall’altro. Nonostante infatti la condanna esplicita del Sinodo di Cagliari del 1652, la dimensione del sacro e la fiducia nel potere degli elementi naturali si son fatti in Sardegna quasi una cosa sola, tanto che le icone votive e le innumerevoli Madonne venerate dalla popolazione sono esse stesse adornate e protette da talismani.

Il primo, più semplice e immancabile in  ogni corredo, è sicuramente il Kokko, chiamato in altre zone della Sardegna Sabegia o Pinnadellu: è il simbolo dell’occhio buono che affronta quello cattivo, “il malocchio”, fino a spaccarsi per proteggere la persona. Generalmente veniva donato e usato come spilla per fermare il velo che un tempo le donne portavano sopra il capo nel costume tradizionale. Questo gioiello è  costituito da una pietra nera, incastonata in 2 coppette d’argento, proprio come quella che ho ritrovato nel mio cassetto. La sua importanza era tale che veniva regalata dalle nonne ai nascituri per proteggerli fin dalla loro venuta al mondo. In effetti, se gli amuleti sono lo strumento tramite il quale gli esseri umani esercitavano in qualche modo un controllo sulle energie naturali, le donne ne erano le protagoniste indiscusse: coloro in grado di controllarle e amministrarle.

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Turbo Rugosa, ph. H. Zell –  CC BY-SA 3.0, Link

E a ben vedere le fasi più importanti della vita di una donna erano segnate fortemente dalla magia e dai rituali.  Fra queste il parto e la maternità erano sicuramente considerati il cardine attorno al quale ruotava tutta l’esistenza femminile ed intorno ad essi si affollavano credenze e pregiudizi per cui l’uso di amuleti diveniva essenziale. Nel novero spicca la “perda de latte”, una pietra bianca e opalescente che doveva scongiurare la scomparsa del latte materno. Il minerale, montato anche in questo caso in forma di gioiello,  doveva restare per tutto il tempo dell’allattamento a contatto col seno della madre ed essere attivato da speciali formule magiche. Per proteggere poi il piccolo dal malocchio, non poteva mancare neanche la “manufica“, di corallo o giaietto, comune in molti altri paesi del bacino mediterraneo, che evocava nella forma la congiunzione dei sessi.  Del resto, il simbolismo erotico o legato al concetto di fecondità connota molti dei feticci ritenuti più forti, quale ad esempio il cosiddetto “occhio di Santa Lucia” che già nella tradizione ebraica possiede insostituibili valenze apotropaiche.

L’occhio di Santa Lucia non è altro che l’opercolo di un mollusco, il turbo rugosus, che ricorda l’embrione umano e per questo motivo veniva spesso appeso alle culle. La stessa cosa si può dire anche per la ciprea, un’altra conchiglia richiamante nelle forme l’organo sessuale femminile e quindi ritenuto in grado di garantire fertilità, ma anche prosperità e ricchezza. Non si va molto lontano osservando i tipici bottoni che adornano quasi tutti i costumi tradizionali dei vari paesi e che rappresentavano un dono tipico del fidanzamento. Le loro fattezze riproducono chiaramente il seno femminile e anche con esse si augurava di avere una buona produzione di latte materno.  Per finire, per scongiurare la morte del neonato causato da streghe,  le “kogas” che di notte si nutrivano del suo sangue ( una traslazione mitica della sindrome della morte in culla?), il giaciglio del piccolo veniva circondato da sonaglini ed erbe.

Conchiglia di Ciprea

C’è anche da dire che non soltanto questi momenti segnanti della vita umana erano accompagnati dall’uso di amuleti: dalla collezione di Nanni Rocca  affiorano altri bellissimi oggetti che tutelavano giuramenti, preghiere e speranze. Fra questi, vi ricordo   “Su Koro“, il cuore, rappresentato in molti gioielli  scaramantici con il significato di giuramento o fedeltà e l’elaborato “Is Papperis: una piccola teca all’interno della quale si custodivano invocazioni, suppliche,  confessioni, parole ritenute importanti dal suo possessore.

Adesso forse vi sarà più chiaro perché il mio “su Kokku” resta appeso saldamente al mio collo: dalla sua superficie lucente nera si affaccia l’universo di credenze ancestrali, ancora caldo sotto le braci della modernità, che legavano saldamente l’uomo alla natura attraverso il suo lato più misterico. Guardarci dentro e come guardare dentro  noi stessi.

Informazioni pratiche: La mostra Prendas contra s’ogu malu è un’esposizione itinerante che potrete avere la fortuna di incontrare in altre città della Sardegna. Se così non fosse, il punto di riferimento per scoprire di più sugli amuleti e sulle tradizioni sarde e senz’altro il Museo etnografico di Nuoro, il più grande della Sardegna, che detiene una raccolta di abiti, , gioielli, manufatti tessili e lignei, armi, maschere, pani, strumenti della musica popolare, utensili vari. Inoltre nel paese di Gavoi presso Casa Porcu Satta si trova una parte della collezione storica dell’orafo Nanni Rocca. Infine, per conoscere da vicino l’opera della stessa oreficeria vi rimando al sito ufficiale. E per approfondire vi consiglio la lettura di questi saggi:

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