Pisa, che ai miei occhi già era un diamante luminoso, alfiere della bellezza d’Italia nel mondo, si arricchiva di una nuova perla
Per i Toscani Pisa è un luogo della mente: un posto mitologico, una specie di Westeros dai contorni sfumati e leggendari. La sua immagine nella nostra testa comincia a formarsi fin da piccini, perché c’è sempre qualcuno che ti canta la filastrocca de “la torre di Pisa che pende, che pende e mai non vien giù“. Crescendo, diventa quel luogo magico che segna il passaggio all’età adulta, la sede dell’Ateneo dove già si sono formati i tuoi genitori e dove, addirittura, hanno lottato durante il Sessantotto. Poi arriva finalmente anche per te quel giorno in cui, orgogliosamente, sali sul treno e ti confondi con gli altri studenti: chi legge, chi dorme, chi, con aria molto impegnata, ticchetta con le dita su un portatile, chi chiacchiera in un gruppo già affiatato nello spazio fra una carrozza e l’altra. Hai già visto Pisa molte volte e, per te, Pisa è la sua grande Piazza dei Miracoli, “la piazza più bella del mondo” a sentire qualcuno, ma non è ancora la “tua” Pisa. Lo sarà a breve, dopo tanti caffè trangugiati al volo in Corso Italia, dopo i tanti sguardi rapiti dal panorama sui lungarni dal Ponte di Mezzo, dopo i pranzi frugali in Piazza Dante e i sonnellini rubati in biblioteca, le corse in autobus, le mani rallentate dal freddo del primo mattino, le attese in copisteria e quelle tese, stipati come sardine, negli androni di antichi Palazzi prima di un esame. Solo a quel punto Pisa ti sarà diventata familiare, al tempo stesso amica e invisa, e il suo ritratto avrà contorni netti, ben definiti e quasi ti sarai dimenticato della sua bellezza. Succederà però all’improvviso che qualcosa ridesterà i tuoi sensi annoiati e Pisa tornerà ad essere quel luogo del sogno della tua infanzia.
Ricordo quando accadde per me. Era il 1998, in una di quelle mattinate routinarie. Ogni giorno simile all’altro, seduta sul treno, stanca, come tutti i pendolari intorno a me, e ansiosa di giungere a destinazione. All’altezza della stazione di San Rossore si alza un chiacchiericcio, prima indistinto, poi sempre più chiaro, che finisce per catturarmi: “hanno trovato delle navi” – dicono. “Delle navi, sei sicuro?”. “Sì, delle navi romane“. Quasi non potevo crederci. Pisa, che ai miei occhi già era un diamante luminoso, alfiere della bellezza d’Italia nel mondo, si arricchiva di una nuova perla. Io delle navi di epoca romana neanche riuscivo a immaginarle: per me Roma era associata a strade, acquedotti, grandi monumenti e non mi ero mai soffermata troppo sul ruolo dei Romani nella navigazione. Ma ciò che più mi affascinava era l’idea stessa dello scavo: quasi per caso, si diceva, durante i lavori per l’ampliamento della ferrovia di San Rossore, ci si era imbattuti in un relitto. Poi un altro e un altro ancora. Non ci è voluto molto per capire la portata di quel ritrovamento, celato nel terreno per millenni. Un autentico tesoro dal valore inestimabile e un cannocchiale, puntato sul passato, come se attraverso un varco temporale una civiltà dimenticata tornasse a parlarci. Io e altri studenti ci alzammo in piedi per sbirciare all’interno del cantiere recintato e carpire qualche dettaglio di quello che stavo succedendo: non vedevo l’ora di vederle, quelle navi. Com’erano fatte e dove erano dirette? Chi le guidava? Allora immaginavo degli argonauti possenti degni un libro fantasy.
Dovette passare molto tempo tuttavia prima che potessi placare la mia curiosità e dare una forma certa a quelle visioni. Prima la laurea e poi la famiglia fecero si che Pisa e le sue navi finissero in un cassetto assieme al libretto degli esami.
Qualche settimana fa, in occasione dell’assemblea annuale dell’Associazione Italiana Travel Blogger, è suonato l’atteso campanello: si va a Pisa e si va a visitare il Museo delle Navi Antiche di Pisa. Con me, altri blogger dell’Associazione e la mia famiglia al completo. Mentre nella mia testa si ricuciva quel tessuto ormai sfilacciato di ricordi e immaginazione, nasceva in me la nuova emozione di poter condividere quella scoperta con i miei cari. Colma di aspettativa e curiosità ho atteso di entrare dentro il padiglione allestito presso gli Arsenali Medicei. E già che Pisa fu Repubblica marinara (come Genova, dove si trova l’altro stupefacente Museo del Mare): chi se lo ricordava? Una volta varcato l’ingresso, con il bambino per mano, ho riconosciuto subito la particolarità dell’ambiente. Un museo sì, ma anche un cantiere in cui si poteva ancora respirare l’odore delle resine e dei solventi tipici del restauro. Era un po’ come essere nel backstage di un concerto in cui si riesce a vivere lo spettacolo dal di dentro. Di fronte a noi, in mezzo al grande spazio espositivo, si riconoscevano quattro grandi vascelli. Avevo fretta di vederli, ma la nostra abile guida ci ha bloccato per spiegarci che quello che avremmo osservato era solo la punta dell’iceberg di quello che sarà il museo una volta finito il lavoro di recupero. Circa 30 sono infatti i relitti riemersi dal sottosuolo che attendono di essere mostrati al pubblico. E anni ci sono voluti per arrivare a questo primo risultato. Anni di lavoro meticoloso e certosino, di sperimentazione e ricerca non soltanto in ambito archeologico, ma anche sui materiali e sulle tecniche di conservazione. Passo dopo passo, tentativo dopo tentativo. Perché il legname, di cui sono costituiti i reperti, è un materiale altamente deperibile, arrivato a noi quasi illeso solo perché protetto da strati di limo e in assenza di aria: un miracolo, in pratica. Così, una alle volta, le navi sono state estratte – caso unico al mondo – intere e trasportate in laboratorio per il restauro. Abbiamo capito immediatamente la straordinarietà di quest’opera, tanto innovativa da rappresentare un nuovo protocollo per la salvaguardia dei legni antichi.
Ma per il mio bambino, troppo piccolo per addentrarsi in particolari storici, quelle erano tutte “navi del pirata” e quella commistione fra favole e realtà era ciò che gli ci voleva per essere felice.
Non sono stati solo gli scafi, gli utensili le anfore a tornare alla luce, ma la vita stessa di un popolo che ci ha preceduto
E dunque eccoci davanti alla prima nave, nominata F, e risalente al II sec d. C.. Abbiamo scoperto subito e con sorpresa che non si trattava di una imbarcazione da mare aperto, ma di una piroga, realizzata con unico grande pezzo di legno, usata per la navigazione fluviale. Incredibilmente la guida ci ha mostrato quanto l’apparato di pilotaggio tanto la forma ricordino fortemente la struttura della gondola veneziana e così, con un altro volo d’immaginazione, abbiamo sorvolato il porto pisano di quel tempo, molto simile alle lagune venete.
La seguiva quindi una barca dalla natura molto diversa: il traghetto, a fondo piatto, Nave I, realizzato in legno di quercia, ma astutamente rivestito nel fondo da fasce chiodate in ferro per proteggere lo scafo dagli urti. Questa nave, del IV-V secolo d.C., serviva al trasporto del bestiame. Grazie ad essa il racconto sul territorio dell’epoca si faceva sempre più chiaro e il mio affresco paesaggistico si arricchiva di dettagli: una zona dominata dal fiume Arno, usata sì per la navigazione, ma spesso soggetta a piene e inondazioni dovute al regime torrentizio dei corsi d’acqua. A dire la verità, come lo scavo stesso ha mostrato, si trattava di un delta fluviale molto complesso a monte del quale si trovava il bacino naturale dell’Auser, cioé il Serchio di oggi. In questo crocicchio fluviale venivano ormeggiate quindi navi che solcavano mari e acqua dolce che tuttavia soffrivano le conseguenze delle periodiche alluvioni. A poco a poco il mio quadro diventava un brulicante via vai di imbarcazioni di ogni tipo, belle e fiere, di uomini a riva indaffarati a spostare le merci e di scalpitio di frementi cavalli impegnati a trainare a riva vigorose chiatte. Come infatti ci ha poi chiarito la Nave D, di epoca tardo-medievale, queste venivano trasportate a terra con l’ausilio di una coppia di equini. Il mio trasognato dipinto diventava sempre più simile a una brulicante tela di Brueghel. Frattanto lo scheletro della nave, eretto su supporti in metallo, incombeva su di noi come un possente mamut. E come un vecchio dinosauro, emerso dalle pieghe più profonde del tempo, mi faceva riflettere sulla nostra evanescenza e su quanto siano preziose le tracce che lasciamo dietro di noi.
Del resto, mancava ancora il pezzo forte della raccolta. Alkedo, la nave C ( I sec. d. C) , che a noi ha restituito persino il suo nome grazie a un’iscrizione al suo interno. La curiosa ibridazione fra due lingue estinte ( Alkedo significa gabbiano in greco antico, ma la scritta è in caratteri latini) mi ha fatto subito pensare alla mentalità dell’epoca e questa volta, in primo piano, nel ritratto ora dettagliato di quel mondo lontano, compariva l’uomo. Un marinaio seduto comodamente su un morbido cuscino mentre i vogatori remavano. Un uomo che godeva di tutti i privilegi della pax augustea, quando i Romani dominavano pressoché incontrastati sotto il regno del grande imperatore ed “il mare era di tutti”. Ma la prudenza non è mai troppa, deve aver pensato il nostro, e quindi, sulla prua, campeggia ancora oggi un grande occhio nero: un chiaro simbolo scaramantico. E chissà! Forse quest’uomo era stato anche un guerriero perché la Alkedo, sebbene adattata ad usi civili, ha tutte le caratteristiche della nave da guerra, munita addirittura di un rostro sulla prua per speronare gli avversari.
Tanti sono, ancora, gli altri dettagli che ci aiutano a rifinire meglio i suoi tratti: la cassetta di legno con medicinali e monete, gli amuleti, le anfore colme di sementi, oggetti votivi, calzature e vasellame. Tutti oggetti che saranno poi visibili nei 4800 metri quadri dell’esposizione finale e che oggi occupano, in parte, una sala successiva a quella delle navi. Ecco perché questo recupero è stato giustamente ribattezzato la Pompei del mare. Non sono stati solo gli scafi, gli utensili le anfore a tornare alla luce, ma la vita stessa di un popolo che ci ha preceduto. Quella vita – ho spiegato a mio figlio – che conduceva “il papà del papà del papà del papà…” e che, alla fine, non era poi così diversa dalla nostra.
Con questi ultimi tocchi, il mio arazzo su Pisa si arricchiva di fili preziosi e la trama adesso è solida come quella di una vela spiegata.
Altre informazioni:
Il Museo delle navi antiche di Pisa si trova presso gli Arsenali Medicei, sul lungarno Ranieri Simonelli: mai luogo fu più adatto di questo ad ospitare un museo navale. Si tratta infatti dei capannoni eretti nel Cinquecento per volere di Cosimo I dei Medici, adibiti alla costruzione delle imbarcazioni, decorati da mascheroni e stemmi che inneggiano alle vittorie dell’ordine cavalleresco di Santo Stefano. L’esposizione, quando sarà terminata, mostrerà oltre alle imbarcazioni, com’era Pisa prima delle navi, gli eventi alluvionali che hanno causato il loro affondamento e spiegherà l’affascinante lavoro di scavo e restauro.
Durata della visita 60 minuti circa
Per maggiori info: www.navidipisa.it
Post in collaborazione con: il Comune di Pisa (www.comune.pisa.it), il Museo Navi Antiche di Pisa
Mi sembra proprio un bel museo. Ho un bambino amante dei musei e dei reperti antichi… credo che qui impazzirebbe!
È un sito pressoché unico…te lo consiglio caldamente!
un ottimo consiglio per le famiglie la visita di questo museo! prima o poi ci andremo! grazie! e complimenti per le suggestive fotografie!
Grazie a te! Sono felice ti sia piaciuto..